La Vuelta ormai non è terza a nessuno. Era il terzo grande giro per importanza e a grande distanza dagli altri due (Giro e Tour).

Ora non è più così. Fernando Escartin (e Aso) sono riusciti in quello che sembrava impossibile: rendere la corsa a tappe spagnola qualcosa di imperdibile

GIOVANNI BATTISTUZZI 26 AGO 2023 ilfoglio.it lettura3’

Sembra passata una vita da quando la Vuelta era il terzo grande giro. E grande solo per durata: tre settimane, le stesse di Tour de France e Giro d’Italia. Per il resto era piccola, trascurabile, faceva fatica a superare i confini nazionali. Sono passati invece poco più di dieci anni. È cambiato tutto. La Vuelta, che oggi inizia da Barcellona la sua 78esima edizione, è diventata grande per davvero, ha più nulla in meno del Giro d’Italia, se non il secolo abbondante di glorioso pedigree. Il Tour de France è lontano, inavvicinabile per tutti. Prima corsa a tappe di tre settimane inventata, ancor oggi la più appassionante, anche perché ci vanno tutti i migliori al mondo, cosa che non accade altrove.

La Vuelta fino al 1994 era corsa buona per preparare la stagione per chi puntava al Tour de France. Arrivava presto, ad aprile. Poi, quando nel 1995 venne spostata a settembre, si è evoluta in un contentino per delusi dal Tour o dal Giro. Niente di più che questo. È più così. Non è più un evento perdibile, anzi. Il futuro spesso si manifesta, diventa presente, in Spagna. Da quando Aso, la società organizzatrice del Tour de France (e di molte altre corse, dalla Parigi-Roubaix in giù) gestisce Unipublic, l’ente che organizza la corsa a tappe spagnola (nel 2008 rilevò il 49 per cento delle quote, nel 2014 tutte le altre), la Vuelta è diventata un laboratorio perfetto per realizzare progetti di corsa che al Tour non sarebbero stati possibili da testare. In Spagna, azzardano (con criterio), anticipano trend che poi il Tour cavalca, sempre con successo.

Un processo di sperimentazione che inizialmente ha avuto qualche problema, è parecchio difficile modificare i propri vizi, ma che poi ha iniziato a ingranare, soprattutto da quando la Vuelta ha iniziato a credere davvero nelle idee di Fernando Escartin. Lo spagnolo fu scalatore tanto brutto a vederlo pedalare quanto efficace. Correva tutto storto in bicicletta, come nemmeno certi bambini alle prese con i primi giri in bicicletta. Correva scriteriato, d’istinto, incapace di dotarsi di un minimo di tattica. Dopo essersi ritirato, Fernando Escartin ha mantenuto il suo spirito libero, l’ha solo smussato un po’. Ha continuato a credere che c’è nulla di meglio di una razionale irrazionalità. Disse nel 2013: “Il ciclismo non potrà mai staccarsi dalla tradizione, ci sono luoghi che non si può attraversare senza pensare a cosa hanno combinato lì i grandi campioni. In questa tradizione c’è però un’enorme spazio per inserirci qualcosa di nuovo”. Da quando è direttore tecnico della corsa ha cambiato il volto della Vuelta.

La Vuelta si è distaccata parzialmente da quello che è stata per anni: un accumularsi di salitelle dalle pendenze impossibili, strade che salivano brevi e irtissime buone a concedere agli spettatori l’illusione che quello fosse spettacolo. Non ha mai rinnegato tutto questo, anche perché agli spagnoli piace. L’ha però reso meno estremo, meno totalitario. Ha saputo creare percorsi misti, alternare occasioni per velocisti e per scalatori, tracciati buoni per portare mattate all’arrivo.

C’è sempre un abbondare di salita nei percorsi della Vuelta, tanto da farli apparire sbilanciati, monodirezionali. Non lo sono davvero. Le ultime edizioni hanno trovato in corsa sempre una quadra, sono state incerte, appassionanti. Hanno soprattutto richiamato i migliori corridori in circolazione. Quelli che lo erano in quel momento e quelli che lo sarebbero diventati poi. Tadej Pogacar iniziò in Spagna, nel 2019, quel percorso che lo portò a diventare prima uno dei migliori corridori per le corse a tappe, poi uno dei migliori corridori in assoluto. Non fu merito della Vuelta, certo, solo suo, ma fu in Spagna che tutti ci accorgemmo del suo talento. Non fu il solo. È da anni che le squadre del World Tour preferiscono la Vuelta per capire il potenziale dei corridori. Un anno fa un direttore sportivo di uno dei più importanti team ci disse: “La Vuelta è la corsa migliore per capire dove un corridore può davvero arrivare. Sia per il percorso, sia perché c’è una qualità media degli interpreti migliore che altrove”. Quest’anno Primoz Roglic e Jonas Vingegaard cercheranno alla Vuelta la doppietta stagionale dopo aver vinto Giro e Tour. Evenepoel permettendo.

Da Barcellona inizieremo a prendere le misure a Lenny Martinez, scalatore francese estremamente interessante, e Cian Uijtdebroeks, ventenne belga che ha convinto più di qualcuno in Belgio a dire che non sarà Remco Evenepoel il primo belga dopo Lucien van Impe a riportare nel paese la maglia gialla, Lennert van Eetvelter e Oscar Onley. Soprattutto rivedremo in azione Juan Ayuso, uno che a vent’anni è già alla seconda Vuelta e che vuole (e può) migliorare quanto fatto un anno fa: fu terzo

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