Le differenze di genere: quattro miti da sfatare (2 di quattro, segue))

Mito #2: Le differenze di genere sono, in massima parte, un prodotto della cultura e della socializzazione.
23.3.2023 Marco Del Giudice fondazionehume.it/cultura lettura6’

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Il modello a “tabula rasa” secondo cui le differenze di genere sono fondamentalmente arbitrarie e costruite dalla socializzazione ha iniziato a prendere piede in psicologia più di cent’anni fa; ha preso forza con il comportamentismo e si è cristallizzato negli anni ’70, all’apice dell’influenza delle teorie dell’apprendimento sociale. Nel tempo, quello che sembrava un approccio moderno e sofisticato si è trasformato in un dogma, sempre più impermeabile alle disconferme empiriche. Per dirlo in modo diretto: allo stato attuale delle nostre conoscenze non c’è alcun motivo solido per ritenere che le differenze di genere siano prodotte esclusivamente (o quasi) dall’apprendimento sociale. Al contrario, ci sono diversi motivi importanti per ritenere che i fattori biologici contribuiscano in modo sostanziale allo sviluppo psicologico di maschi e femmine. In un articolo così breve è impossibile rendere giustizia a un dibattito così complesso; dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, mi limito a descrivere le principali fonti di informazione che evidenziano i limiti della “tabula rasa” e indicano un ruolo importante per la nostra biologia.

Innanzitutto ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, in particolare quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, che in quest’ambito sono di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi—come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli—ma anche di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi). Oltre alla teoria, in biologia si ricorre spesso al confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate grazie al confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. È importante sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

Un altro strumento chiave per separare parzialmente “natura” e “cultura” è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (tra diverse società nello stesso momento storico) che nel tempo (la stessa società in tempi ed epoche diverse). Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione, le differenze nei tratti di personalità, nelle preferenze, nei valori, nelle abilità cognitive, e perfino in certi disturbi mentali (come la depressione) non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato estremamente robusto che mette in crisi il modello “puro” della socializzazione.

Cambiando livello di analisi, è importante considerare gli studi in cui i tratti psicologici vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale, come nel caso dell’iperplasia surrenale congenita (congenital adrenal hyperplasia o CAH). L’iperplasia surrenale causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine, ed è particolarmente importante perché le pazienti che ne sono affette vengono esposte ad un profilo ormonale “mascolinizzato” prima della nascita, ma una volta nate (e sottoposte a trattamenti per ridurre i livelli di androgeni) vengono socializzate come le altre bambine. Si tratta di una patologia piuttosto rara, ma i dati che fornisce sono estremamente preziosi per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni con questa patologia hanno rivelato effetti significativi degli androgeni prenatali su una gamma notevole di tratti psicologici. Rispetto alla media, le bambine affette da CAH tendono ad essere fisicamente un po’ più aggressive, meno interessate ai neonati, e a preferire compagni di gioco maschi. Più tardi sviluppano abilità visivo-spaziali più spiccate, tendono ad essere fortemente interessate ad attività e professioni orientate alle cose, e hanno una maggiore probabilità di essere sessualmente attratte da altre ragazze.

Altre fonti di evidenza sono più indirette, ma sempre utili per circoscrivere il ruolo dell’apprendimento ed evitare di attribuire automaticamente certe osservazioni all’influenza dell’ambiente. Per esempio, le correlazioni tra genitori e figli nell’aderenza a comportamenti e stereotipi di genere sono piuttosto modeste; e almeno nei Paesi occidentali, gli studi che hanno indagato le differenze nel modo in cui i genitori trattano bambini e bambine hanno rilevato pochissime differenze significative. Il ruolo dei genitori è stato ridimensionato anche dalla genetica del comportamento, che ha mostrato chiaramente come il comportamento genitoriale sia fortemente influenzato dalla personalità e dalle caratteristiche individuali dei figli, che a loro volta sono parzialmente determinate a livello genetico.

Per tornare all’esempio delle preferenze cose-persone, questi interessi emergono molto presto nello sviluppo (secondo alcuni dati, forse addirittura alla nascita), e sono influenzati sia da fattori genetici che dall’esposizione agli androgeni durante le prime fasi della vita. La socializzazione di genere sembra avere un ruolo limitato: come in molti altri casi, lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è più forte nei Paesi con maggiore parità di genere; inoltre, l’andamento generale delle differenze è rimasto praticamente invariato per più di cinquant’anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e dell’educazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Nessuno dubita che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è molto difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato in qualche misura anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Leggendo quello che ho scritto finora, a qualcuno potrebbe sembrare che io voglia sostenere il primato assoluto della biologia e l’irrilevanza dell’apprendimento. Niente di più sbagliato: una volta assodato che i fattori biologici sono importanti, inizia la parte più affascinante del lavoro, cioè capire esattamente come questi fattori si esprimono e interagiscono con le caratteristiche dell’ambiente. I dati che ho riassunto fin qui non dipingono un quadro in bianco e nero, ma un mondo ricco di sfumature e potenzialità. Un esempio istruttivo viene dal dibattito sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito delle discipline STEM. I dati raccolti su bambini e adulti indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità e possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Inoltre, lo scarto tra maschi e femmine non è costante ma aumenta progressivamente durante lo sviluppo. Questi risultati sono compatibili con il dispiegarsi di effetti genetici e ormonali attraverso le varie tappe di sviluppo, ma anche con l’instaurarsi di cicli di feedback positivo che amplificano e consolidano le differenze iniziali. Alcuni ricercatori li hanno usati per sostenere che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte interamente dalla socializzazione; si tratta di un’argomentazione debolissima, perché la plasticità delle abilità cognitive non contraddice le spiegazioni evoluzionistiche. Per analogia, anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio; questo non toglie che le differenze nella costituzione corporea (e quindi nella forza fisica) di uomini e donne abbiano una chiara base biologica. (segue..)

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