Altro che “stabilità sciapa”, ci vuole conflitto

politico feroce (altrimenti non si esce da questa situazione)

Il filo rosso del rapporto (assai cupo) del Censis nelle parole del suo presidente, De Rita: “Basta illusioni”

La stabilità? La parola chiave di quest’anno confuso è una mera illusione. L’illusione del mare calmo che è sempre foriero di fenomeni violenti”. E Giuseppe De Rita non resiste a una citazione della cultura classica. “Scriveva Senofane: dal mare nascono le piogge, le tempeste, le trombe d’aria, i maremoti”. Senofane di Colofone, il pensatore presocratico chiamato “l’eterno esule”, una scelta nient’affatto casuale. Un’atmosfera cupa trasuda dal rapporto Censis e dalle considerazioni generali del fondatore il quale si definisce, non senza qualche civetteria, “un autonomo bianco”. Mentre si celebrano i cinquant’anni della sua creatura, De Rita si confessa con un fondo di pessimismo e nel 47esimo rapporto sulla situazione sociale del paese presentato ieri al Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), non rinuncia a mettere in guardia dalla grande stagnazione nella quale siamo immersi, non solo economica, ma sociale, intellettuale, politica, che crea “una società sciapa e infelice”. Gli scandagli trasversali ai quali il Censis ci ha abituato non sono mai caduti nel realismo moralista dei liberali (basti ricordare Ugo La Malfa), nell’utopismo rivoluzionario e neppure nel progressismo pragmatico dei riformisti. Criticato spesso per un eccesso di ottimismo sulla società civile, adesso dice che non esiste alcuna autonomia, perché essa vive irrimediabilmente in un gioco di specchi con la società politica. Il fatto è che questa volta leggere le pulsioni profonde del paese sembra quasi impossibile persino a De Rita e ai suoi sociologi. “La sfida interpretativa è diventata ancora più difficile in questo 2013”, ammette con sincerità. E lancia una provocazione: “Meglio il conflitto; sì, meglio anche il conflitto politico”.

Parole forti che lo mettono in contrasto aperto con lo spirito del tempo, a costruire il quale ha lavorato Giorgio Napolitano. De Rita ammette apertamente che sì, proprio il presidente della Repubblica è l’aedo di questa stabilità che alla fine dei conti si rivela fittizia, diventa una morta gora. “La stabilità della tomba” ha scritto il Wall Street Journal la scorsa settimana. Espressione che non s’addice al Censis. E tuttavia come giudicare una élite che per difendere se stessa difende l’esistente? “Ha enfatizzato la crisi, evocando l’abisso, ma l’abisso non arriva. Cavalca quel che c’è per rilegittimarsi, drammatizza la crisi per gestire la crisi. Ma non si costruisce nessuna classe dirigente con annunci di catastrofe”. Secondo De Rita, “questa coazione alla stabilità nel momento più critico dell’anno ha portato anche a una reinfetazione delle forze politiche nelle responsabilità del Presidente della Repubblica”. Non c’è via di scampo nemmeno nel piccolo è bello, nel localismo, nei cespugli, nell’adattamento spontaneo del sociale, perché “i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una solitudine senza élite”. Così, il primato del sociale riscopre la politica, il lungo periodo ha bisogno del breve, la trasformazione dell’azione. Di qui a dire che è meglio andare alle elezioni al più presto il passo è brevissimo. Lo scorso anno De Rita aveva attaccato le troppe illusioni create dalla scorciatoia tecnocratica (insomma il governo Monti), oggi se la prende con una soluzione politica (la coalizione prima grande poi piccola) che rinvia le scelte fondamentali. Da un pulpito ben diverso e per motivazioni talvolta opposte, emerge lo stesso timore di una stasi paludosa e mefitica espresso proprio in questi giorni a Bruxelles, a Francoforte e a Berlino.

De Rita la pensa come Renzi? O addirittura come i falchi di Forza Italia? Certo che no, né l’uno né l’altro. Probabilmente esprime la stanchezza verso l’eterno rinvio e la delusione crescente per chi non è all’altezza del tempo che ci è dato da vivere. Non siamo di fronte al crollo sempre annunciato e sempre evitato, sia chiaro. La società ha fatto appello al proprio spirito di sopravvivenza e manifesta anche elementi di nuova vitalità. L’imprenditorialità femminile o quella degli immigrati; il milione e rotti di giovani che vanno all’estero per lavorare o studiare (non emigrazione né fuga dei cervelli, ma adattamento alla globalizzazione); il welfare state che si privatizza nelle forme più varie (collettive, comunitarie, individuali, o aziendali), fenomeno ormai vastissimo che non viene considerato come merita dalla politica, per colpa di un pregiudizio ideologico da un lato e di una difesa statalistico-corporativa dall’altro. E c’è il boom dell’economia digitale registrato dal Censis proprio nell’ultimo anno, con l’estendersi di un uso attivo delle information technology, a cominciare dall’e-commerce. Il segnale più positivo, la pianta che sbuca dalle pietre del deserto, secondo il Censis è proprio la “crescita di connettività che tende a propagarsi in avanti”.

Le istituzioni non sembrano in grado di valorizzarla, e ciò rischia di far abortire i processi positivi che essa innesca.  L’idea tipica della cultura cattolica, cioè una politica che interpreta i processi, li incardina, li riorganizza e li rafforza, riemerge nel più inquietante dei rapporti Censis. “Ondate di cultura bocconiana non hanno dato molto a questo paese”, dice De Rita che conclude le sue considerazioni con un omaggio al “respiro più spontaneo della società”, più fecondo rispetto alla lettura illuminista che ha prodotto solo illusioni. Ma questa volta sembra un passaggio quasi obbligato, per non inficiare mezzo secolo di analisi e riflessioni. Perché mai come oggi, l’atto consapevole riprende anche per lui il centro della scena.

© - FOGLIO QUOTIDIANO di Stefano Cingolani, 7 dicembre 2013 - ore 06:59

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