Gridare al Ventotene. La manifesta immaturità politica di Giorgia Meloni
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Inseguendo Trump e i vecchi fantasmi del comunismo, e ignorando la storia italiana, la presidente del Consiglio ha mostrato ancora una volta i suoi limiti e l’incapacità di porsi come una leader repubblicana credibile
20.3.2025 Mario Lavia linkiesta.it lettura3’
Poteva far passare questa non elettrizzante due giorni parlamentare così, incassando una unità formale (solo formale ma meglio di niente) del centrodestra di fronte alle solite spaccature delle opposizioni. E invece Giorgia Meloni non si è tenuta – altro che democristiana – e proprio in zona Cesarini ha fatto l’autogol sparando sull’aula di Montecitorio un penoso copia e incolla da terza media sbocconcellando e risputando fuori pezzetti di quel Manifesto di Ventotene mille volte citato da Sergio Mattarella come fulgida testimonianza dell’utopia europeista, mentre lei ne ha fatto un volantino di Potere Operaio.
Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, figuriamoci. Antifascisti tutti d’un pezzo odiati dai comunisti di allora (Spinelli era stato espulso dal Partito comunista italiano nel 1937) – il cui faro era la piazza Rossa, non quello scoglio nel Tirreno ove, nel 1941, erano confinati dal regime.
Ma la presidente del Consiglio, mal consigliata dalle truppe asserragliate nelle caserme della Verità e di Libero e dai duri di Palazzo Chigi di rito fazzolariano, è ridiventata per un giorno la giovane-vecchia leader post-missina con quel tipico tocco di ignoranza che non le fa cogliere le differenze tra socialismo liberale e comunismo, tra i fratelli Carlo e Nello Rosselli e Pietro Secchia, tra Piero Gobetti e Iosif Stalin. Ma questo è noto, è parte costitutiva dell’anti-antifascismo di una donna che ogni tanto sente il bisogno di lasciare Palazzo Chigi per salire a Colle Oppio per ritrovare la sé stessa di un tempo fuori dalle costrizioni istituzionali dell’oggi.
A rischio di un frontale politico e morale con il Presidente della Repubblica che, immaginiamo, nel pranzo di ieri non l’avrà degnata di uno sguardo, lui che nelle scuole va a parlare di Spinelli come di un indiscutibile punto di riferimento della democrazia europea: ma tutto questo lei non lo sa, non gliel’hanno spiegato mai, né in sezione né a Palazzo Chigi.
La presidente del Consiglio non ricorda neanche le parole non di un comunista ma di Gianfranco Fini nel 2013: «Nel Manifesto di Ventotene, redatto nel 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, è affermata l’idea di un’Europa federale libera da ogni deteriore nazionalismo perché affrancata da una concezione esasperata della sovranità degli Stati. “Un’Europa libera e unita – si legge nel testo – è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto”. Sono parole che mantengono ancor oggi intatta la loro forza e la loro capacità d’insegnamento».
Fini è lontano, e malgrado le apparenze lo è sempre. È a lei che scatta il braccio destro come succedeva a Peter Sellers nel “Dottor Stranamore”, ma perché? Primo, Meloni in qualche modo non vuole e non può distanziarsi dalla scia reazionaria che Donald Trump sta disegnando sul mondo come la cometa del ventunesimo secolo, e nel rigetto dei valori europei da parte della nuova Casa Bianca ben si incastona il dileggio del Manifesto spinelliano. Prima regola meloniana, restare sempre attaccati al nuovo corso di Washington, non solo per il comune sentire ideologico ma in ossequio al vassallaggio politico agli Stati Uniti, regola d’oro se vuoi conservare il potere.
Secondo, c’è il fatto che Meloni ha periodicamente bisogno di una botta identitaria che sollevi il morale delle truppe, cioè di quel pezzo di elettorato che alla fine se ne frega delle grisaglie e delle auto blu e vuole un po’ di sangue identitario, e alla bisogna non c’è mezzo migliore, come cento anni fa, di scatenare una rissa contro i comunisti, oggi per carità solo figurata ma pur sempre una rissa da osteria.
È un modo, anche, per fare capire a quel mattoide di Matteo Salvini che è la presidente del Consiglio a rappresentare, colei che in teoria dovrebbe cercare di unire e non di spaccare. Meloni non dimentica mai di dare la caccia ai comunisti immaginari che tra un impegno e l’altro continuano a popolare la sua fantasia, in una non tanto piccola dissociazione mentale che ne vanifica l’affidabilità democratica